Concedersi un’analisi o fors’anche una psicoterapia psicoanalitica significa fare un sacrificio per il proprio benessere. Verrebbe da dire che è un po’ come stare a dieta dimagrante per certi versi…
Di fatto si rinuncia a qualcosa ma si investe in qualcos’altro.
Si rinuncia al tempo da poter trascorrere in palestra, o magari al cinema nei ritagli di giornata o di serata. L’analisi spesso dà la sensazione di occupare spazio, tanto spazio. Questa sensazione c’è principalmente quando si è all’inizio del trattamento o esso viene come proposta o semplicemente ci si comincia a pensare. Non si può negare che sia vero; cioè questo senso di “invasione” che si sente nella propria vita, non è poi così campato in aria. Il tempo e lo spazio che la seduta occupa dentro è immenso, perché sono tempo e spazio dedicati a sé stesso. Ciò ha un significato diverso per ognuno a seconda della stima che si ha di sé e molto spesso se questa stima è bassa, se nel proprio profondo si sente di meritare poco, c’è la tendenza a far passare l’analisi sempre in secondo piano con motivazioni del tipo: “Si ma io vorrei anche vivere ogni tanto, godermi un po’ di leggerezza …”.
Il motivo non è solamente questo ovviamente, ma sento di poter dire che è un vissuto inconscio abbastanza importante e frequente.
Si spende del denaro che andrebbe forse a coprire spese importanti: affitto, mutuo, interventi medici specialistici, la spesa di tutti i giorni etc.
Anche qui il concetto di im-portanza, e cioè della capacità che ha qualcosa di portare qualcos’altro dentro di noi, prende forma attorno alla persona che decide come spendere.
Il concetto di cura psichica, senza volersi avventurare troppo in quello di psicoanalisi, resta ancora molto difficile nella nostra cultura e dover pensare di prendersi cura di sé attraverso il pensiero stesso, sembra un po’ difficile da incastrare con la quotidianità concreta che siamo portati a vivere. Per questo un’emergenza specialistica di qualsiasi altro tipo porta dentro dei benefici, ma la cura (nel senso di attenzione!) del proprio pensiero viene comunque messa in secondo piano.
Si mette in gioco, più di ogni altra cosa, la propria affettività, il proprio modo di porsi nei confronti dell’altro, secondo quelli che sono stati i modelli appresi dalla propria famiglia e nel corso della vita a seguire. Questo elemento, come detto, è forse tra i più importanti non solo rispetto a quello di cui stiamo parlando, ma rispetto all’analisi in generale, come potremmo aver modi di vedere anche in altri post. Relazionarsi nell’analisi, vuol dire, brevemente, mettere in discussione quei modelli, con la fatica e l’angoscia che ne deriva, visto che ci si è impiegato tanto e tanto tempo per metterli a punto!
Ecco perché l’analista sembra sempre portato a pensare che la vera fatica stia principalmente nell’investimento affettivo: il tempo o il prezzo impiegati nell’analisi rispetto a quello che si è versato in tanti anni di pene e di angoscia, non vuol essere rivissuto così a cuor leggero.
C’è poi il dato di realtà, con cui analista e paziente, a mio parere, non possono non confrontarsi.
Accade spesso però che la realtà dell’analista sia quella di avere a che fare con una persona che al 90% delle volte è una persona che ha delle difficoltà che vanno opportunamente affrontate, mentre la realtà del paziente è quella di avere a che fare con qualcuno che vuol occuparsi di quelle difficoltà dando ad egli stesso l’idea che può farcela. Riuscire a raggiungere un compromesso su questo vuol dire poter intraprendere un’analisi fruttuosa, ma, perché avvenga, è necessario, come disse qualcuno, che almeno uno dei due abbia già fatto un’analisi.
Attilio de Angelis
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